La vicenda storica, che semplifichiamo, per quel che qui interessa, nasce dall’esecuzione dei lavori per la costruzione di un immobile, la cui iniziativa è da attribuire ad una Società cooperativa edilizia a r. l., costituita a tale scopo, per l’assegnazione degli alloggi “in proprietà o in locazione semplice o con patto di futura vendita ai soci”.
Veniva stipulato un contratto di appalto con una ditta di costruzioni, la quale, su dettagliata indicazione delle modalità costruttive e dei progetti forniti dalla Cooperativa, svolgeva i lavori, la cui direzione veniva affidata ad un tecnico.
Già durante la costruzione si manifestarono infiltrazioni al piano seminterrato che, prontamente denunciate da alcuni soci, si cercò di risolvere secondo le indicazioni e le previsione del D. L., senza una vera risoluzione del problema. Il nascente contrasto venne ad acuirsi quando alcuni soci incaricarono altro tecnico di verificare le cause ed i rimedi necessari alla soluzione definitiva del problema: a questo punto venne convocata un’assemblea per dirimere la controversia sulle modalità d’intervento definitivo. Intervenne allora un ricorso, ex art. 696 c.p.c., da parte dei soci presunti danneggiati nei confronti del D. L. e della stessa Cooperativa: l’A. T. P. individuò le infiltrazioni ed indicò le opere necessarie ad eliminarle, anche perché, ormai, erano tali da “minacciare la stabilità strutturale dell’intero immobile”, riconoscendo l’assenza di alcune opere previste nel capitolato di appalto.
Successivamente, il D. L. e la ditta appaltatrice venivano formalmente diffidati dalla Cooperativa ad emendare i vizi secondo le indicazioni fornite dal C.T.U. e, in difetto, al risarcimento dei danni patiti dalla società. In seguito, il giudizio promosso dalla Cooperativa nei confronti del D. L., che ha chiamato in causa sia la sua compagnia di assicurazione, sia l’impresa, si concludeva con ordinanza dichiarativa di litispendenza per connessione poiché, nelle more, un gruppo di soci aveva agito nei confronti della Cooperativa con rito societario, ritenuto assorbente, nel quale giudizio era stato esteso il contraddittorio con la chiamata in causa dell’impresa appaltatrice e della compagnia assicurativa per la r. c. professionale del D. L..
Contestualmente, in pendenza del giudizio ordinario promosso dalla cooperativa nei confronti del del D. L. e dell’impresa appaltatrice, i soci del gruppo hanno attivato una procedura arbitrale, con la richiesta della nomina dell’arbitro unico previsto dello statuto, da nominarsi dal Presidente del Tribunale, per chiedere – in maniera del tutto coincidente – l’accertamento della responsabilità dei danni patiti nei confronti della Società cooperativa edilizia a r. l. ai sensi dell’art. 1669 c.c., ovvero 1667 c.c., e comunque, in via subordinata, ex art. 1490 c.c., con susseguente condanna al risarcimento dei danni da accertare, come avevano chiesto nel procedimento con rito societario già estinto.
Senza voler entrare nel merito della questione, concentreremo l’analisi sulla legittimità dell’eccezione di litispendenza del giudizio ordinario rispetto al giudizio arbitrale posteriormente instaurato.
Prima della riforma apportata con il D. Lgs. n. 40/2006, la giurisprudenza (segnatamente le SS. UU. della C. Cassazione, con la Sent. 3 agosto 2000, n. 527) riteneva che il rapporto tra arbitro e giudice non era inquadrabile nello schema della competenza, perché la legittimazione degli arbitri altro non era che una questione di merito relativa all’esistenza e alla validità del patto di deroga alla giurisdizione ordinaria. Oggi, abbandonato l’orientamento privatistico, non può comunque inquadrarsi propriamente il problema in termini di “competenza”, stante il regime peculiare ispirato alle c. d. vie parallele, che di per sé esclude qualsiasi travaso di norme dal regime generale del libro I del c.p.c. alla disciplina dell’arbitrato.
Per quanto riguarda la litispendenza e la continenza ex art. 39 c.p.c., l’art. 819 ter c.p.c., co. 1, esclude l’applicabilità della regola generale, con la conseguenza incontestabile che è escluso l’esperimento di strumenti preventivi atti ad ovviare al possibile contrasto di giudicati; inoltre, il lodo, di per sé, non è soggetto ai rimedi propri delle decisioni sulla competenza, ma soltanto all’impugnazione per nullità, per cui si deve concludere che giammai tale eccezione, regolarmente formulata, possa legittimare l’impugnazione dello stesso attraverso il regolamento di competenza.
Inoltre, dalla lettura sistematica della disposizione si deve concludere che solo la decisione di merito della causa ordinaria, passata in giudicato, preclude ed esclude la riproposizione della stessa controversia difronte all’arbitro: diversamente, qualora il giudizio ordinario non sia concluso, l’arbitro – successivamente adito – non potrà declinare la propria competenza a favore del giudice ordinario se l’oggetto del procedimento rientri nei confini segnati dalla clausola compromissoria, anche qualora si tratti della stessa causa (art. 819 ter, co. 1, primo periodo).
In tale ultima ipotesi, ovvero qualora vi siano due giudizi paralleli, il raccordo andrà ricercato attraverso le rispettive decisioni:questa soluzione rischia di essere per le parti estremamente onerosa, ma, allo stato, l’ordinamento non ritiene di accordare particolare rilevanza a tale ipotesi. Rimarrà quindi aperta alla discrezionalità dell’arbitro di prevedere la sospensione del giudizio arbitrale all’esito del giudizio ordinario.La vicenda storica, che semplifichiamo, per quel che qui interessa, nasce dall’esecuzione dei lavori per la costruzione di un immobile, la cui iniziativa è da attribuire ad una Società cooperativa edilizia a r. l., costituita a tale scopo, per l’assegnazione degli alloggi “in proprietà o in locazione semplice o con patto di futura vendita ai soci”.
Veniva stipulato un contratto di appalto con una ditta di costruzioni, la quale, su dettagliata indicazione delle modalità costruttive e dei progetti forniti dalla Cooperativa, svolgeva i lavori, la cui direzione veniva affidata ad un tecnico.
Già durante la costruzione si manifestarono infiltrazioni al piano seminterrato che, prontamente denunciate da alcuni soci, si cercò di risolvere secondo le indicazioni e le previsione del D. L., senza una vera risoluzione del problema. Il nascente contrasto venne ad acuirsi quando alcuni soci incaricarono altro tecnico di verificare le cause ed i rimedi necessari alla soluzione definitiva del problema: a questo punto venne convocata un’assemblea per dirimere la controversia sulle modalità d’intervento definitivo. Intervenne allora un ricorso, ex art. 696 c.p.c., da parte dei soci presunti danneggiati nei confronti del D. L. e della stessa Cooperativa: l’A. T. P. individuò le infiltrazioni ed indicò le opere necessarie ad eliminarle, anche perché, ormai, erano tali da “minacciare la stabilità strutturale dell’intero immobile”, riconoscendo l’assenza di alcune opere previste nel capitolato di appalto.
Successivamente, il D. L. e la ditta appaltatrice venivano formalmente diffidati dalla Cooperativa ad emendare i vizi secondo le indicazioni fornite dal C.T.U. e, in difetto, al risarcimento dei danni patiti dalla società. In seguito, il giudizio promosso dalla Cooperativa nei confronti del D. L., che ha chiamato in causa sia la sua compagnia di assicurazione, sia l’impresa, si concludeva con ordinanza dichiarativa di litispendenza per connessione poiché, nelle more, un gruppo di soci aveva agito nei confronti della Cooperativa con rito societario, ritenuto assorbente, nel quale giudizio era stato esteso il contraddittorio con la chiamata in causa dell’impresa appaltatrice e della compagnia assicurativa per la r. c. professionale del D. L..
Contestualmente, in pendenza del giudizio ordinario promosso dalla cooperativa nei confronti del del D. L. e dell’impresa appaltatrice, i soci del gruppo hanno attivato una procedura arbitrale, con la richiesta della nomina dell’arbitro unico previsto dello statuto, da nominarsi dal Presidente del Tribunale, per chiedere – in maniera del tutto coincidente – l’accertamento della responsabilità dei danni patiti nei confronti della Società cooperativa edilizia a r. l. ai sensi dell’art. 1669 c.c., ovvero 1667 c.c., e comunque, in via subordinata, ex art. 1490 c.c., con susseguente condanna al risarcimento dei danni da accertare, come avevano chiesto nel procedimento con rito societario già estinto.
Senza voler entrare nel merito della questione, concentreremo l’analisi sulla legittimità dell’eccezione di litispendenza del giudizio ordinario rispetto al giudizio arbitrale posteriormente instaurato.
Prima della riforma apportata con il D. Lgs. n. 40/2006, la giurisprudenza (segnatamente le SS. UU. della C. Cassazione, con la Sent. 3 agosto 2000, n. 527) riteneva che il rapporto tra arbitro e giudice non era inquadrabile nello schema della competenza, perché la legittimazione degli arbitri altro non era che una questione di merito relativa all’esistenza e alla validità del patto di deroga alla giurisdizione ordinaria. Oggi, abbandonato l’orientamento privatistico, non può comunque inquadrarsi propriamente il problema in termini di “competenza”, stante il regime peculiare ispirato alle c. d. vie parallele, che di per sé esclude qualsiasi travaso di norme dal regime generale del libro I del c.p.c. alla disciplina dell’arbitrato.
Per quanto riguarda la litispendenza e la continenza ex art. 39 c.p.c., l’art. 819 ter c.p.c., co. 1, esclude l’applicabilità della regola generale, con la conseguenza incontestabile che è escluso l’esperimento di strumenti preventivi atti ad ovviare al possibile contrasto di giudicati; inoltre, il lodo, di per sé, non è soggetto ai rimedi propri delle decisioni sulla competenza, ma soltanto all’impugnazione per nullità, per cui si deve concludere che giammai tale eccezione, regolarmente formulata, possa legittimare l’impugnazione dello stesso attraverso il regolamento di competenza.
Inoltre, dalla lettura sistematica della disposizione si deve concludere che solo la decisione di merito della causa ordinaria, passata in giudicato, preclude ed esclude la riproposizione della stessa controversia difronte all’arbitro: diversamente, qualora il giudizio ordinario non sia concluso, l’arbitro – successivamente adito – non potrà declinare la propria competenza a favore del giudice ordinario se l’oggetto del procedimento rientri nei confini segnati dalla clausola compromissoria, anche qualora si tratti della stessa causa (art. 819 ter, co. 1, primo periodo).
In tale ultima ipotesi, ovvero qualora vi siano due giudizi paralleli, il raccordo andrà ricercato attraverso le rispettive decisioni:questa soluzione rischia di essere per le parti estremamente onerosa, ma, allo stato, l’ordinamento non ritiene di accordare particolare rilevanza a tale ipotesi. Rimarrà quindi aperta alla discrezionalità dell’arbitro di prevedere la sospensione del giudizio arbitrale all’esito del giudizio ordinario.