Tizio veniva rinviato a giudizio al termine delle indagini preliminari per il reato p. e p. dall’art. 589, commi 1, 2 e 3 c. p. (omicidio colposo plurimo).
In sede di udienza preliminare il P. M. non fornì il consenso all’applicazione della pena nella misura finale della reclusione per 21 mesi. Seguirono ulteriori contatti con l’Ufficio dai quali emerse che si sarebbe potuta concludere la trattativa a non meno di 26 mesi di reclusione, sull’assunto, affermato dal P. M., che tale pena poteva effettivamente limitarsi a soli due mesi di affidamento in prova al servizio sociale, essendo, in ipotesi, applicabile l’art. 163 c.p. per i residui ventiquattro (in dottrina vi è unanimità nel ritenere che tale misura è ormai applicata automaticamente, senza alcuna indagine, se non fittizia, di tipo prognostico – cfr. FINDACA, MUSCO, Diritto penale, Parte Generale, V° ed., Bologna, 2006, 788).
Dopo tale affermazione perentoria, forti dubbi hanno dato avvio all’esame della fattibilità di una soluzione siffatta.
Dapprima, analizzando la lettera della legge: “nel pronunciare sentenza di condanna alla reclusione o all’arresto per un tempo non superiore a due anni […] il giudice può ordinare che l’esecuzione della pena rimanga sospesa per il termine di cinque anni […]” (art. 163 c.p.), per cui, prima facie, appare molto improbabile che la giurisprudenza abbia potuto superare tale limite oggettivo. Tuttavia, essendo il diritto dell’esecuzione particolarmente curiale ed essendo stata tanto perentoria l’affermazione del P. M., si è reso opportuno ricercare pronunce che potessero ribaltare questa insoddisfacente prima lettura.
Ma l’analisi della giurisprudenza, non essendo infine realistica tale possibilità, si è dovuta svolgere anche in maniera inversa: ovvero, non trovando pronunce che applicavano la pena come prospettato dal P. M., si è cercato di capire se e quando il giudice possa occuparsi, nella fase dell’esecuzione, della sospensione condizionale della pena.
Infatti, non essendo un beneficio penitenziario, viene considerato generalmente uno strumento, come abbiamo letto, a disposizione del giudice della cognizione; a conferma di questo assunto vi è l’art. 671 c.p.p. la cui elaborazione giurisprudenziale evidenzia che, stante l’unicità del reato continuato sul piano sanzionatorio, formando – il reato continuato – ai fini dell’applicazione dell’art. 164 c.p., un autonomo titolo di reato, si rende possibile tale eccezionale applicazione dell’istituto nella fase dell’esecuzione; infatti le condanne per fatti criminosi per i quali sia riconosciuto questo vincolo sono all’uopo considerate come un’unica sentenza di condanna (Cass., sez. II, 10.01.2001; Cass., sez. I, 27.09.1993). Ad ulteriore prova, vi è giurisprudenza che sottolinea l’eccezionalità della disposizione di cui all’art. 671, co. 3 c.p.p. che circoscrive tassativamente le ipotesi normative di fruibilità della sospensione condizionale della pena in executivis (Cass., sez. I, 18.11.2004; Cass., sez. I, 12.03.1997).
Sgombrato così il campo da dubbi dogmatici, se il giudice della cognizione può applicare la sospensione condizionale solo per pene non superiori a due anni ed il giudice dell’esecuzione può occuparsene solo ai sensi dell’art. 671 c.p.p., nel nostro caso, logicamente, non può ritenersi applicabile tale istituto, laddove sia considerata come pena finale quella di 26 mesi di reclusione.
Eliminata tale ipotesi, per le ragioni suesposte, si è cercato di ricondurre l’accordo entro il limite dei 24 mesi che, anche ai sensi dell’art. 444, co. 3 c.p.p., avrebbe consentito l’applicazione delle sospensione condizionale della pena, anche per la considerazione che nella fattispecie trattavasi di un’imputazione per reato colposo. Per contro, per ragioni di opportunità sociale e/o dedotta omogeneità, il P.M. Si opponeva decisamente a contenersi entro questa soglia, ribadendo che solo sui 26 mesi avrebbe prestato il consenso.
Considerato che l’esecuzione di una sentenza di applicazione della pena per 26 mesi di reclusione, oggi, ai sensi della L. n. 165/98, viene sospesa in via interlocutoria, quando vi è fumus bonis juris (verosimiglianza di accoglimento della richiesta di misure alternative alla detenzione) e periculum in mora (grave pregiudizio per l’insorgenza della detenzione): stabilisce infatti l’art. 656, co. 5, c.p.p. che “se la pena detentiva […] non è superiore a tre anni […] il pubblico ministero, salvo quanto previsto dai commi 7 e 9, ne sospende l’esecuzione. L’ordine di esecuzione e il decreto di sospensione sono notificati al condannato e al difensore […] con l’avviso che entro trenta giorni può essere presentata istanza, corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessaria, volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione di cui agli artt. 47, 47 ter e 50 co. 1. della legge 26.07.1975, n. 354 e successive modificazioni […]”; in sintonia con l’assistito, si è ritenuto opportuno accettare l’accordo sulla base dei 26 mesi di reclusione, vista la concreta possibilità di scontare la pena attraverso l’affidamento in prova al servizio sociale.
Infatti, considerata l’applicabilità al caso de quo della detta misura (reclusione inferiore ai tre anni), rimane solo da verificare la possibilità di positiva prognosi di non recidività: al riguardo in dottrina si osserva che “l’indeterminatezza in ordine alla valutazione del comportamento del soggetto in libertà comporterà una maggiore attenzione rivolta ai dati relativi ai precedenti penali e giudiziali del reo, nonché ai carichi pendenti dello stesso” (PAVARINI, GUAZZALOCA, Corso di diritto penitenziario, Bologna, 2004, 126) e pertanto è stato considerato positivamente, come sopra detto, di accettare l’accordo sulla concreta previsione di non incorrere nel rischio di una recidiva e quindi di scontare interamente la pena attraverso l’affidamento in prova al servizio sociale.Tizio veniva rinviato a giudizio al termine delle indagini preliminari per il reato p. e p. dall’art. 589, commi 1, 2 e 3 c. p. (omicidio colposo plurimo).
In sede di udienza preliminare il P. M. non fornì il consenso all’applicazione della pena nella misura finale della reclusione per 21 mesi. Seguirono ulteriori contatti con l’Ufficio dai quali emerse che si sarebbe potuta concludere la trattativa a non meno di 26 mesi di reclusione, sull’assunto, affermato dal P. M., che tale pena poteva effettivamente limitarsi a soli due mesi di affidamento in prova al servizio sociale, essendo, in ipotesi, applicabile l’art. 163 c.p. per i residui ventiquattro (in dottrina vi è unanimità nel ritenere che tale misura è ormai applicata automaticamente, senza alcuna indagine, se non fittizia, di tipo prognostico – cfr. FINDACA, MUSCO, Diritto penale, Parte Generale, V° ed., Bologna, 2006, 788).
Dopo tale affermazione perentoria, forti dubbi hanno dato avvio all’esame della fattibilità di una soluzione siffatta.
Dapprima, analizzando la lettera della legge: “nel pronunciare sentenza di condanna alla reclusione o all’arresto per un tempo non superiore a due anni […] il giudice può ordinare che l’esecuzione della pena rimanga sospesa per il termine di cinque anni […]” (art. 163 c.p.), per cui, prima facie, appare molto improbabile che la giurisprudenza abbia potuto superare tale limite oggettivo. Tuttavia, essendo il diritto dell’esecuzione particolarmente curiale ed essendo stata tanto perentoria l’affermazione del P. M., si è reso opportuno ricercare pronunce che potessero ribaltare questa insoddisfacente prima lettura.
Ma l’analisi della giurisprudenza, non essendo infine realistica tale possibilità, si è dovuta svolgere anche in maniera inversa: ovvero, non trovando pronunce che applicavano la pena come prospettato dal P. M., si è cercato di capire se e quando il giudice possa occuparsi, nella fase dell’esecuzione, della sospensione condizionale della pena.
Infatti, non essendo un beneficio penitenziario, viene considerato generalmente uno strumento, come abbiamo letto, a disposizione del giudice della cognizione; a conferma di questo assunto vi è l’art. 671 c.p.p. la cui elaborazione giurisprudenziale evidenzia che, stante l’unicità del reato continuato sul piano sanzionatorio, formando – il reato continuato – ai fini dell’applicazione dell’art. 164 c.p., un autonomo titolo di reato, si rende possibile tale eccezionale applicazione dell’istituto nella fase dell’esecuzione; infatti le condanne per fatti criminosi per i quali sia riconosciuto questo vincolo sono all’uopo considerate come un’unica sentenza di condanna (Cass., sez. II, 10.01.2001; Cass., sez. I, 27.09.1993). Ad ulteriore prova, vi è giurisprudenza che sottolinea l’eccezionalità della disposizione di cui all’art. 671, co. 3 c.p.p. che circoscrive tassativamente le ipotesi normative di fruibilità della sospensione condizionale della pena in executivis (Cass., sez. I, 18.11.2004; Cass., sez. I, 12.03.1997).
Sgombrato così il campo da dubbi dogmatici, se il giudice della cognizione può applicare la sospensione condizionale solo per pene non superiori a due anni ed il giudice dell’esecuzione può occuparsene solo ai sensi dell’art. 671 c.p.p., nel nostro caso, logicamente, non può ritenersi applicabile tale istituto, laddove sia considerata come pena finale quella di 26 mesi di reclusione.
Eliminata tale ipotesi, per le ragioni suesposte, si è cercato di ricondurre l’accordo entro il limite dei 24 mesi che, anche ai sensi dell’art. 444, co. 3 c.p.p., avrebbe consentito l’applicazione delle sospensione condizionale della pena, anche per la considerazione che nella fattispecie trattavasi di un’imputazione per reato colposo. Per contro, per ragioni di opportunità sociale e/o dedotta omogeneità, il P.M. Si opponeva decisamente a contenersi entro questa soglia, ribadendo che solo sui 26 mesi avrebbe prestato il consenso.
Considerato che l’esecuzione di una sentenza di applicazione della pena per 26 mesi di reclusione, oggi, ai sensi della L. n. 165/98, viene sospesa in via interlocutoria, quando vi è fumus bonis juris (verosimiglianza di accoglimento della richiesta di misure alternative alla detenzione) e periculum in mora (grave pregiudizio per l’insorgenza della detenzione): stabilisce infatti l’art. 656, co. 5, c.p.p. che “se la pena detentiva […] non è superiore a tre anni […] il pubblico ministero, salvo quanto previsto dai commi 7 e 9, ne sospende l’esecuzione. L’ordine di esecuzione e il decreto di sospensione sono notificati al condannato e al difensore […] con l’avviso che entro trenta giorni può essere presentata istanza, corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessaria, volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione di cui agli artt. 47, 47 ter e 50 co. 1. della legge 26.07.1975, n. 354 e successive modificazioni […]”; in sintonia con l’assistito, si è ritenuto opportuno accettare l’accordo sulla base dei 26 mesi di reclusione, vista la concreta possibilità di scontare la pena attraverso l’affidamento in prova al servizio sociale.
Infatti, considerata l’applicabilità al caso de quo della detta misura (reclusione inferiore ai tre anni), rimane solo da verificare la possibilità di positiva prognosi di non recidività: al riguardo in dottrina si osserva che “l’indeterminatezza in ordine alla valutazione del comportamento del soggetto in libertà comporterà una maggiore attenzione rivolta ai dati relativi ai precedenti penali e giudiziali del reo, nonché ai carichi pendenti dello stesso” (PAVARINI, GUAZZALOCA, Corso di diritto penitenziario, Bologna, 2004, 126) e pertanto è stato considerato positivamente, come sopra detto, di accettare l’accordo sulla concreta previsione di non incorrere nel rischio di una recidiva e quindi di scontare interamente la pena attraverso l’affidamento in prova al servizio sociale.